Luigi Lambruschini (1834-1853)

 

Tratto dal Dizionario Biografico degli Italiani, 63, pp. 218-223 edito dall’Istituto della Enciclopedia Italiana.

Ultimo di dieci figli, nacque a Sestri Levante il 16 maggio 1776 da Bernardo e da Pellegrina Raggi e fu battezzato con i nomi di Emanuele Nicolò (diventerà Luigi solo alla vestizione sacerdotale). Mancano notizie precise sulla posizione sociale della famiglia, che la tradizione vorrebbe assai facoltosa, ma che un manoscritto inedito attribuito ad A. Coppi (ora a Roma, Museo centrale del Risorgimento, vol. 143), secondo il quale il padre del L. era un oste, ricondurrebbe a condizioni più modeste quale ne fosse l’origine, i sei figli maschi furono tutti in grado di distinguersi, soprattutto al servizio della Chiesa, raggiungendo con il maggiore, Giovan Battista, nato a Sestri il 26 ott. 1755, la consacrazione vescovile e, dal 1807, la titolarità della diocesi di Orvieto, da dove, nel 1810, al tempo della dominazione francese, sarebbe stato esiliato e dove sarebbe morto il 24 nov. 1825. Degli altri fratelli uno solo. Luigi, padre di Raffaello, avrebbe scelto la professione civile affermandosi come banchiere e possidente.

Sulle orme dei fratelli, anche il L. fu iniziato alla vita di religione e, dopo aver frequentato un collegio di gesuiti a Santa Margherita Ligure, nel 1793 fu ammesso nel collegio genovese di S. Bartolomeo degli Armeni, retto dai padri barnabiti: i voti solenni, pronunciati il 18 nov. 1794, dopo un anno di noviziato, furono seguiti da un triennio di ulteriori studi in un collegio di Macerata, dal trasferimento a Roma per l’assunzione degli ordini minori (23 dic. 1797), dall’espulsione da Roma nei primi mesi di vita della Repubblica e dall’ordinazione sacerdotale che ebbe luogo a Sestri Levante il I° genn. 1799.

Iniziò quindi un periodo in cui il L. fu adibito alla formazione dei giovani barnabiti come docente di retorica e poi di filosofia e matematica, prima a Bologna (1799-1800), quindi a San Severino Marche e, dal maggio 1801, a Macerata. Il ritorno a Roma, avvenuto nell’ottobre del 1803, collocandolo a S. Carlo a’ Catinari e mettendolo quindi a contatto con i vertici della Congregazione (F.L. Fontana, dal 1807 generale dell’Ordine; dieci anni prima il L. aveva frequentato anche il cardinale (G.S. Gerdil), dava particolare enfasi a una preparazione come la sua, da tempo orientata verso l’approfondimento della teologia, la materia che, oltre a essere la disciplina di base del suo insegnamento, costituiva anche, nella declinazione intransigente e fermamente antigiansenista offertane dal L., il punto fermo della sua visione del ruolo della Chiesa e del Papato nel mondo moderno. Le vicissitudini partite al tempo della seconda dominazione francese, quando fu di nuovo espulso da Roma, rimandato a Genova e privato della pensione per essersi sottratto al giuramento, non fecero che rinsaldare la sua mentalità nutrita degli ideali di cristianità medievale e già fermamente ancorata al dogmatismo in religione e all’assolutismo in politica.

Tale rigore piacque a Pio VII che, poco dopo il ritorno a Roma, nominò il L. consultore della neonata congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari, istituita nel 1814 per dotare la S. Sede di un organo consultivo capace di pronunciarsi sulle più varie questioni, da quelle di politica internazionale a quelle spirituali e disciplinari; e fu questa una grande scuola per il L, che si specializzò nel campo dei rapporti tra Stato e Chiesa lavorando alla stesura dei concordati con la Toscana (1815), la Francia e la Baviera (1817: quello con la Francia bocciato dal Parlamento transalpino), Napoli (1818). Inoltre l’esperienza fatta nella congregazione – il L. ne fu segretario dal 26 marzo 1816 al 23 ott. 1819 – gli creò solidi rapporti con gli ambienti della Curia e gli fornì un metodo di lavoro non esente da capacità temporeggiatrici o di mediazione, ma tutt’altro che incline al compromesso: un metodo ispirato a una certa cautela, ma fermo nella difesa o nella riconquista di quello che a suo parere doveva essere lo spazio della Chiesa nell’epoca postrivoluzionaria.

Si avvertiva qui tutto il peso del clima in cui si era venuto formando il suo pensiero, non a caso ancorato alla pubblicistica ultracattolica della Restaurazione, in particolare ai testi del primo F.-R. Lamennais e alle riflessioni di personaggi quali il modenese G. Baraldi, ma si intravedeva anche, nella trama delle sue molte relazioni, il disegno di potere cui pareva destinarlo un’ambizione fuori del comune.

Portato in primo piano dal suo attivismo, il 27 sett. 1819 il L. fu preconizzato arcivescovo di Genova: circolò allora la voce plausibile, malgrado la successiva smentita dello stesso L. che la definì una «vera calunnia» (La mia nunziatura, ed. Pirri, p. 5) che la sua promozione fosse da attribuire alla volontà del segretario di Stato E. Consalvi di allontanare da Roma un ecclesiastico che, avendo acquistato troppa influenza sul papa, costituiva ormai un ostacolo per i suoi progetti di governo. Anche a Genova il L. non lesinò il suo zelo e per sette anni si dedicò con tenacia a uno sforzo di rievangelizzazione della zona, in funzione del quale organizzò una lunga visita pastorale nella diocesi (dalla fine del 1820 al 1822), ristabilì alcuni conventi, sorvegliò assiduamente gli ordini religiosi, allestì ritiri spirituali per i sacerdoti e, da vecchio insegnante che conosceva il valore dell’istruzione, affiancò al seminario genovese uno di nuova fondazione a Chiavari. Come era nei suoi voti, tutto questo fervore favorì l’innalzamento della qualità del clero e la ripresa della devozione popolare.

Si ricorda anche, di questo periodo, l’azione che il L. dispiegò in occasione dei moti del 1821 per riportare la calma a Genova dopo che alcuni insorti avevano sequestrato il governatore della città: l’intervento pacificatore gli procurò prestigio nella corte torinese e ne fece il protagonista del viaggio compiuto a Modena per convincere il nuovo re di Sardegna Carlo Felice a non affidare la repressione agli Austriaci.

Intanto, accogliendo nella sua residenza genovese A. Capece Minutolo principe di Canosa e il Lamennais degli attacchi all’indifferentismo religioso e al gallicanesimo, il L. infittiva i suoi rapporti con gli ambienti e i personaggi della reazione. Sua interlocutrice privilegiata era già adesso l’aristocrazia legittimista. Quanto alle aspirazioni di carriera, nel 1823 era andato molto vicino alla porpora cardinalizia, sfumata per la morte di Pio VII che poco prima lo aveva riservato in pectore. Arrivò invece per lui, con una decisione presa da Leone XII il 14 nov. 1826 e motivata dal desiderio di ricondurre alla piena fedeltà a Roma la Chiesa d’Oltralpe, la missione a Parigi come titolare della nunziatura di Francia, che tenne dal febbraio 1827 al luglio 1831.

Non fu un impegno leggero, anzitutto per le posizioni di retroguardia assunte dalla Chiesa in un paese dove, come dovette constatare il L., la stampa era libera, il potere del sovrano limitato dalla Charte e il clero, da quello basso fino ai vescovi, giudicato poco affidabile, perché o poco preparato o viziato dai residui del gallicanesimo, tanto più in una città come Parigi che egli considerava il «vero centro donde il veleno della corruzione religiosa e politica propagasi in tutti quanti gli altri regni della terra» (La mia nunziatura, p.33). E tuttavia, fino al 1830, potendo contare sull’appoggio della corte e dei circoli legittimisti, il L. riuscì, senza incidenti troppo clamorosi e tenendo a freno il proprio istinto autoritario, a conseguire qualche risultato, per esempio temperando nei fatti il contenuto delle ordinanze del 1828 emanate per colpire i gesuiti e le loro istituzioni, in particolare i seminari. Non ebbero esito, invece, le pressioni esercitate sul re per ottenere un graduale restringimento delle libertà costituzionali, ma questa sua insistenza fece sì che all’apparire delle quattro ordinanze da cui ebbe origine la rivoluzione del 1830 egli fosse indicato come uno di coloro che ne avevano consigliato l’adozione: cosa che il L. smentì allora e in seguito, non preoccupandosi tuttavia di negare gli inviti a resistere con le armi, rivolti a Carlo X, la disapprovazione della scelta papale di riconoscere rapidamente il regime scaturito dalla rivoluzione (e perciò stesso illegittimo, a suo dire), le proprie collusioni con gli ambienti reazionari, le relazioni cordiali con la diplomazia austriaca. E mentre si deteriorava rapidamente il rapporto con la monarchia orleanista, essenzialmente borghese e ai suoi occhi responsabile di scarso attaccamento alla religione, le ultime iniziative del L. come nunzio furono dirette da un lato a colpire il Lamennais dopo la svolta democratica dell’Avenir, dall’altro a scongiurare che l’intervento austriaco nelle Legazioni insorte nel febbraio del 1831 spingesse la Francia a scatenare una guerra.

La missione del L. si concluse bruscamente nella primavera del 1831 quando il governo francese, contrariato dalle sue trame legittimiste e prendendo a pretesto il rifiuto da lui opposto alla sepoltura ecclesiastica di un antico esponente del clero costituzionale, chiese e ottenne che Roma lo richiamasse in patria. In aperto dissenso dagli indirizzi conciliativi degli esordi del papato di Gregorio XVI, al L. non restò che rievocare le vicende della nunziatura in un manoscritto (ora in Arch. segreto Vaticano) che, terminato nel 1836, sarebbe rimasto inedito fino al 1934, quando P. Pirri ne pubblicò a Bologna una versione ampia ma non integrale (La mia nunziatura di Francia); ma, al di là dei toni autoassolutori del suo racconto, va detto che nella diplomazia europea durò a lungo il giudizio critico verso le «vues étroites de cette Éminence et la raideur de ses manières» (Morelli, p. 161). Quasi a compensarlo delle disavventure parigine, nel concistoro del 30 sett. 1831 il papa lo promosse cardinale con il titolo di S. Callisto e il 28 nov. 1834 lo mise a capo della congregazione degli Studi, un posto dal quale ebbe modo di operare a favore della diffusione dell’istruzione popolare, ma anche di controllare che nelle università dello Stato pontificio non allignasse alcun germe della moderna cultura politica e che tutte le tendenze filosofiche e scientifiche fossero subordinate all’osservanza religiosa: a guidarlo era sempre la persuasione che, come scrisse il 10 giugno 1833 al nipote Raffaello Lambruschini nel vano tentativo di distoglierlo dai suoi esperimenti pedagogici, «l’amore indiscreto che si mostra oggidì di generalizzare l’istruzione e la coltura mira non a migliorare la società, ma ad infelicitarla» (Manzini, p. 269). Altro settore cui dedicò le sue cure fu quello delle relazioni con il Piemonte che cercò di regolarizzare, d’intesa con il governo di Carlo Alberto, sul piano della nomina delle sedi vacanti e della sistemazione dell’asse ecclesiastico, arrivando anche a far sì che nella sede di Torino il Papato tornasse a farsi rappresentare da un nunzio «con carattere episcopale» (ibid., p. 268).

Da tempo esponente di punta della corrente avversa al segretario di Stato T. Bernetti, il 12 genn. 1836 il L. fu da Gregorio XVI chiamato a sostituirlo. Rimase al potere per tutto il resto del pontificato gregoriano e, con un’azione di governo improntata ai principi che lo avevano sempre guidato, suscitò la riprovazione dell’opinione pubblica, non solo di quella liberale e democratica ma anche di quella moderata e cattolica. Gli storici avrebbero successivamente mostrato qualche comprensione per il suo sforzo di mantenere lo Stato libero da troppo forti ingerenze straniere (compresa quella austriaca cui pure era debitore della sicurezza interna) e per l’abilità manovriera con cui seppe «temperare nella pratica l’intransigenza dei suoi principi» (Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, VIII, 2, p. 10). Di fatto il suo fu un governo rigidamente accentratore, insofferente di ogni controllo (come dimostrò la sua ostilità alla riforma con cui nel 1833 il papa aveva creato una seconda segreteria di Stato per gli Interni), poco sensibile alle esigenze collettive di miglioramento, malgrado le forti sollecitazioni rivoltegli in tal senso dai riformatori sociali francesi al tempo della nunziatura; e i dieci anni del suo incarico furono appesantiti dal malessere generale delle popolazioni e punteggiati di tentativi di rivolta puntualmente seguiti da processi, condanne e strette repressive.

Dunque anche per gli storici cattolici è un fatto che l’attività riformatrice degli inizi del papato gregoriano «si arrestò del tutto all’avvento del cardinale Lambruschini, fortemente conservatore e nemico dichiarato delle libertà moderne» (Martina, 1974, p. 54): ciò giustifica in parte l’immagine tutta in negativo che, talvolta esagerando, diedero del suo operato i pubblicisti coevi, sfruttando alla perfezione alcune sue scelte dettate dalla logica della pura sopravvivenza e particolarmente impopolari. Non fecero certo una buona impressione la sua opposizione alla costruzione delle ferrovie e la proibizione ai sudditi pontifici di partecipare ai congressi degli scienziati; quanto alla politica culturale, è significativo che nel 1839 il L. chiedesse al nunzio a Napoli di «impossessarsi» dei manoscritti che G. Leopardi, «autore di una produzione letteraria irreligiosissima», aveva lasciato ad A. Ranieri (Giuliano, pp. 261 s.).

Si può pensare che sia stata appunto la lunga esposizione al vertice dello Stato a pregiudicare le aspirazioni del L. al papato. Molti membri del S. Collegio temevano il suo misoneismo, e uno di essi, interrogato dal L. sull’esito del futuro conclave, gli rispose: «Se c’entra lo Spirito Santo, sarà Mastai; ma se il diavolo ci mette la coda, sarete voi» (Souvenirs historiques de la marquise Constance d’Azeglio née Alfieri, Torino 1884, p. 82). Ottenuto il più alto numero di suffragi nella prima votazione del conclave del giugno 1846, il L. vide decrescere gradualmente i consensi (dai 15 voti iniziali ai 13, 11 e 10 delle sedute successive), mentre il fronte moderato si compattava attorno al futuro Pio IX; il quale, appena eletto, non lo confermò alla segreteria di Stato, ma si limitò a inserirlo nella equilibratissima congregazione di sei cardinali, creata il 30 giugno con il compito di approntare un piano di interventi atti a rendere più spedita l’amministrazione e a favorire lo sviluppo interno. Sentendosi vicino all’emarginazione, a chi gli parlava di futuri incarichi di governo il L. replicava «d’esser morto con Gregorio XVI» (Manno, p. 93).

Non era morto ma qualche problema lo aveva. Fu indicativa della difficoltà di rapporti con il nuovo papa la conclusione delle trattative per il concordato con la Russia che Pio IX affidò al L. e a G. Corboli Bussi nel novembre del 1846: il negoziato si protrasse per mesi e si arenò per la rigidità del L., fisso nella sua idea «del tutto o nulla» (Martina, 1974, p. 498) che la controparte non poteva accettare. Quando già si pensava di rinunciare all’accordo, un esplicito intervento di Pio IX impose di arrivare comunque a un’intesa parziale che, pur non producendo grandi risultati, evitò una clamorosa rottura e garanti alla Chiesa maggiore considerazione da parte della Russia.

Il timore del riformismo papale spinse il L. a opporsi aprioristicamente a progetti-simbolo, quali l’amnistia o le costruzioni ferroviarie; e dunque, pochi mesi dopo, fu facile attribuire a lui la stesura della prima enciclica papale, la Qui pluribus, in cui la condanna di principio rovesciata sul razionalismo e l’indifferentismo in nome del primato papale lasciava intravedere la trama ben nota del suo pensiero. Così si fece presto a scorgere intenti reazionari negli inviti alla prudenza rivolti a Pio IX, e agli occhi della pubblica opinione il L. divenne, insieme con il cardinale T. Bernetti, il capofila della resistenza al cambiamento, il nemico più insidioso del giobertismo, nonche il responsabile delle congiure vere o presunte organizzate per bloccare la marcia dello Stato pontificio verso le moderne libertà.

Presero avvio da questa crescente impopolarità le molte manifestazioni ostili, le minacce e gli insulti che tra la fine del 1846 e il ’48 segnarono la vita del L., costretto a rifugiarsi nel luglio del 1848 a Civitavecchia (della cui diocesi suburbicaria era titolare dal 1847, dopo che per cinque anni lo era stato di quella di Sabina) e anche lì fatto oggetto di pesanti aggressioni verbali, le stesse che al ritorno a Roma, nel settembre e poi nel novembre del 1848, furono più volte sul punto di tradursi in veri e propri attentati alla sua persona. Finalmente l’ultimo di questi attacchi un tentativo di catturarlo che ebbe luogo al palazzo della Consulta subito dopo l’uccisione di P. Rossi e al quale sarebbe sfuggito nascondendosi nella paglia di una scuderia lo indusse a riparare a Napoli, dove fu accolto in un collegio barnabita.

In corrispondenza con Pio IX, più volte si recò a trovarlo nel rifugio di Gaeta auspicando nei colloqui che ebbe con lui il ritiro della costituzione e la rinuncia alla secolarizzazione delle cariche: «I popoli debbono essere condotti con un freno; – gli scrisse il 2 luglio 1849 – il freno sia moderatamente dolce, ma sia freno» (Manzini, p. 407). Era però troppo avanti negli anni e troppo sgradito alla Francia per avere nella successiva restaurazione un ruolo diverso da quello del teologo, soprattutto considerando che si era alla vigilia di una stagione di definizioni dogmatiche intese a ribadire la linea intransigente provvisoriamente abbandonata da Pio IX.

Toccò infatti a lui, che nel maggio 1849 aveva contribuito alla condanna di alcuni scritti rosminiani, orientare la Chiesa verso il dogma dell’Immacolata Concezione, cui pensava già dal 1843, quando aveva dato alle stampe una sua Dissertazione polemica sull’Immacolato Concepimento di Maria (edito a Roma, l’opuscolo, che elencava tra le prove il consenso dei fedeli, era uscito contemporaneamente anche in versione francese, spagnola, tedesca e, nel 1844, portoghese). Premendo su Pio IX, il L. lo aveva convinto a istituire alla fine del 1848 una congregazione cardinalizia incaricata di esaminare la questione e poi aveva scritto l’enciclica Ubi primum che, pubblicata il 2 febbr. 1849, aveva chiamato i vescovi a pronunciarsi sull’opportunità della dichiarazione.

La morte, sopraggiunta a Roma il 12 maggio 1854, gli impedì di far parte della congregazione consultiva di 21 cardinali, convocata di Pio IX per la stesura finale della bolla istitutiva del dogma. Come aveva chiesto, il L. fu sepolto nella chiesa romana di S. Carlo a’ Catinari davanti all’altare della Madonna della Divina Provvidenza.

Oltre che come estensore di molti documenti pastorali, il L. si era distinto come conferenziere dell’Accademia di religione cattolica (Cinque dissertazioni …, Roma 1853) ed era stato autore di scritti ascetici e devozionali. Si segnalano in particolare i 2 voll. di Operette spirituali, Roma 1833; i 3 voll. di Opere spirituali, ibid. 1838 e Venezia 1839; gli Esercizi di pietà, Roma 1838; l’Istruzione teologica sulla natura e sugli effetti della grandissima pena della scomunica, Benevento 1840.

FONTI E BIBL.: Roma, Arch. stor. dei barnabiti, Carte Lambruschini, arm. 9, cartt. 1-8 (vi figurano, oltre ai mss. di vari trattati di teologia, porzioni di corrispondenza di e al L.); Arch. segreto Vaticano, Spogli dei cardinali, L. L., bb. 4 (nella prima i mss. delle memorie; nelle altre tre, carte relative alla segreteria di Stato); Arch. della nunziatura di Parigi, regg. 17-29; Arch. particolare di Pio IX, n. 1049 (testamento del L.).
Basata in gran parte sull’abbondante documentazione conservata presso l’Archivio romano di S. Carlo a’ Catinari è la biografia di L. Manzini, Il cardinale L. L., Città del Vaticano 1960 (su cui si vedano la recensione di R. Colapietra, in Rass. stor. del Risorgimento, XLVIII [1961], pp. 319-324, e quella di R. Aubert, in Revue d’hist. ecclésiastique, 1963, pp. 801 s.),che utilizza anche materiale tratto dai fondi della segreteria di Stato dell’Arch. segreto Vaticano e da altri archivi minori – in proposito cfr. le indicazioni di G. Boffito, Scrittori barnabiti, II, Firenze 1933, pp. 312-326 IV, ibid. 1937, pp. 409 s. – e segnala la bibliografia disponibile all’epoca. Tra i lavori specificamente dedicati al L. vanno comunque ricordati: M.A. Giampaolo, La preparazione politica del card. L. L., in Rass. stor. del Risorgimento, XVIII (1931), pp. 81-163; E. Piscitelli, Il card. L. e alcune fasi della sua attività diplomatica, ibid., XL(1953), pp. 158-182; A. Gaucy, The nunciature of mgr. L. in France, Malta 1964; L. Grillo, Seconda appendice ai tre volumi della raccolta degli Elogi di liguri illustri, Genova 1976, pp. 360-390. Origine, formazione e dettagli dell’attività diplomatica del L. in W. Maturi, Il principe di Canosa, Firenze 1944, ad ind.; J.P. Martin, La nonciature de Paris et les affaires ecclésiastiques de France sous le règne de Louis Philippe (1830-1848), Paris 1949, ad ind.; E. Piscitelli, Stato e Chiesa sotto la monarchia di luglio, Roma 1950, ad ind.; E. Morelli, La politica estera di Tommaso Bernetti, Roma 1953, ad ind.; Le relazioni diplomatiche fra lo Stato pontificio e la Francia, s. 2, 1830-1848,I, a cura di G. Procacci, Roma 1962, ad ind.; L. Pásztor, La congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari tra il 1814 e il 1850, in Archivum historiae pontificiae, VI (1968), pp. 196, 204, 208, 213, 221 s., 224, 228-233, 239 s.; P. Droulers, Cattolicesimo sociale nei secc. XIX e XX. Saggi di storia e sociologia, Roma 1982, ad ind.; L.Pásztor, La segreteria di Stato e il suo archivio 1814-1833, I-II, Stuttgart 1983, ad ind.; A.Giuliano, Giacomo Leopardi e la Restaurazione, Napoli 1994, pp. 261 ss., 267 ss., Al L. segretario di Stato dedicano qualche spazio tutte le storie della Chiesa: in particolare si rinvia a G. Martina, Pio IX, I-III, Roma 1974-90; R. Aubert, Il pontificato di Pio IX (1846-1878), in Storia della Chiesa, XX, 1-2, Torino 1976, ad ind.; Storia della Chiesa, dir. da H. Jedin, VIII, 1-2, Milano 1977, ad ind.; G. Martina, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, III, Brescia 1995, ad indicem.
Si vedano inoltre: F.A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, II, Firenze 1851, pp. 535-538, 560-563, 567, 591-596; L.C. Farini, Lo Stato romano dal 1815 al 1850, I, Firenze 1853, pp. 78 ss., 150-154; M. Minghetti, Miei ricordi, I, Torino, 1888, pp. 146, 184; A. Manno, L’opinione religiosa e conservatrice in Italia dal 1830 al 1850 ricercata nelle corrispondenze e confidenze di mans. Giovanni Corboli Bussi, Torino 1910, ad ind.; R. Quazza, Pio IX e Massimo D’Azeglio nelle vicende romane del 1847, I-II, Modena 1954, ad ind.; N.Roncalli, Cronaca di Roma, I, a cura di M.L. Trebiliani, Roma 1972, ad ind.; F. Bartoccini, Roma nell’Ottocento, Bologna 1985, ad ind. Tra i repertori: L.M. Levati, Vescovi barnabiti che in Liguria ebbero i natali o la sede, Genova 1910, pp. 671-679; O.M. Premoli, Storia dei barnabiti dal 1700 al 1825, Roma 1925, ad ind.; Dict. de théologie catholique, VIII, Paris 1925, s.v.; Catholicisme hier – aujourd’hui – demain, VI, Paris 1967, s.v.; Hierarchia catholica, VII, ad ind.; Enc. cattolica, VII, s.v.; Dict. de spiritualité, IX, Paris 1976, s.v.; Ch. Weber, Kardinäle und Prälaten in den letzten Jahrzehnten des Kirchenstaates, I-II, Stuttgart 1978, ad indicem.

G. MONSAGRATI


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