Alessandro Albani (1761-1779)
Tratto dal Dizionario Biografico degli Italiani, 1, pp. 595-598 edito dall’Istituto della Enciclopedia Italiana.
Nacque ad Urbino il 15 ott. 1692 da Orazio, fratello di Clemente XI, e da Maria Bernardina Ondedei‑Zonghi. Studiò giurisprudenza alla Sapienza di Roma. Avviatosi alla carriera delle armi, nel 1708, ancora sedicenne, comandò la cavalleria pontificia al momento dell’occupazione di Comacchio da parte delle truppe imperiali. Ma, anche per un precoce difetto alla vista, che lo avrebbe portato negli ultimi anni alla cecità, abbandonò ben presto la carriera militare per quella ecclesiastica, seguendo in questo le orme del fratello maggiore, Annibale, cardinale dal 1712. Clemente XI lo nominò nel 1718 segretario dei memoriali, e, l’anno dopo, chierico della Camera apostolica.
Nel 1720 l’A. fu inviato come nunzio straordinario a Vienna per tutelare i diritti feudali della Santa Sede sul ducato di Parma e Piacenza (che era stato assegnato a don Carlos di Borbone), dirimere alcune divergenze esistenti a proposito della giurisdizione ecclesiastica in Sicilia e trattare la restituzione allo Stato della Chiesa del territorio di Comacchio, occupato dalle truppe imperiali dal 1708.
Nelle intenzioni del papa l’A. sarebbe dovuto intervenire come mediatore al congresso di Cambrai, da convocarsi per discutere le ultime vertenze relative all’assetto europeo dopo la crisi alberoniana: ma la partecipazione dell’A. incontrò l’opposizione dell’imperatore e dell’Inghilterra. Solo l’intervento del ministro francese Dubois (per il quale l’A. chiese da Vienna allo zio pontefice l’elevazione al cardinalato) e i buoni uffici di questi presso lord Stanhope riuscirono ad ottenere per l’A. l’ammissione ai lavori del progettato congresso, che, continuamente rinviato, non ebbe però mai luogo.
Tornato a Roma, Innocenzo XIII lo nominò il 24 sett. 1721 cardinale di S. Adriano, titolo dal quale passò poi a quelli di S. Maria in Cosmedin (1722), S. Agata (1740), S. Maria ad Martyres (1743) e S. Maria in Via Lata (1747). Nel 1720, a Vienna, l’A. aveva anche avuto contatti con il marchese di Breglio, ministro piemontese presso quella corte, in relazione al conflitto determinatosi fin dal 1710 tra il Piemonte e la Santa Sede.
Questo, originato dalla richiesta di Vittorio Amedeo II di un’estensione dell’antico indulto di Nicolò V riguardante le nomine ai vescovati e alle abbazie, e da vertenze relative ai benefici ecclesiastici in Piemonte, si era aggravato per l’acquisto, da parte dei Savoia, della Sardegna, sulla quale la Santa Sede vantava antichi diritti di investitura feudale. Negli anni successivi l’A. si adoperò attivamente per giungere ad un accordo, ed ebbe gran parte nella conclusione delle convenzioni del 1726 e del concordato dell’anno dopo, che regolarono i rapporti della Santa Sede col Regno di Sardegna. Assegnandogli la ricca abbazia di Staffarda e nominandolo protettore del Regno, Vittorio Amedeo II mostrò chiaramente la propria gratitudine all’A.: ma questi si alienò le simpatie dei cardinali «zelanti» (e del suo stesso fratello Annibale), adirati per le eccessive concessioni del concordato alle pretese giurisdizionaliste del sovrano. Forte del suo titolo di protettore, l’A. venne a trovarsi, nel conclave del 1730, a capo di un piccolo gruppo di cardinali favorevoli ai Savoia, e cioè Coscia, Lambertini, Fini e Lercari; per ragioni tattiche, il gruppo si alleò con i cardinali austriaci. Anche nei conclavi successivi l’A. ebbe spesso una parte di primo piano, grazie alla sua abilità manovriera e al suo atteggiamento spregiudicato.
Salito però al soglio pontificio Clemente XII, questi mostrò presto il proposito di addivenire a una revisione delle clausole del concordato, dichiarandone l’invalidità nel 1731. L’A. interpose allora i propri servigi in difesa degli interessi sardi (tra il 1731 e il 1743, come risulta dalle carte dell’Archivio di Stato di Torino, numerose «partite segrete» gli vennero pagate dal ministro piemontese d’Ormea), ma, attraverso frequenti rotture, le trattative si trascinarono vanamente per anni. Una certa parte ebbe anche l’A., nel 1736, nell’arresto del Giannone, ad opera del d’Ormea, informato appunto dall’A. che il papa avrebbe gradito quell’atto. A partire da quell’anno, infatti, la tensione diminuì e le trattative si avviarono verso la conclusione: esse vennero spesso condotte direttamente dal d’Ormea il quale, benché avesse nominato l’A. nel 1737 ministro plenipotenziario, diffidava di lui. Soltanto nel 1741, comunque, si poté giungere a un nuovo concordato, che venne firmato dal cardinale Valenti per la Santa Sede, dal conte Simeone Balbis di Rivera e dall’A. per il Piemonte.
Grazie, forse, al suo deciso atteggiamento antiborbonico, e antifrancese in particolare, l’A. ottenne nel 1743 la nomina a protettore degli Stati ereditari austriaci e, nel 1745, anche dell’Impero. Tra il 1744 e il 1748 resse inoltre l’ambasciata austriaca a Roma. Questi suoi legami con l’Austria suscitarono all’inizio l’indignazione di Benedetto XIV, poiché si stabilirono proprio in un momento (1743) in cui le truppe imperiali, non rispettando la proclamata neutralità dello Stato pontificio, ne avevano invaso il territorio facendone uno dei teatri della guerra di successione austriaca. L’essere al tempo stesso protettore della Sardegna come dell’Austria costrinse talvolta l’A. a muoversi con difficoltà tra i contrastanti interessi dei due stati. I rapporti più stretti dell’A. con il re di Sardegna provocarono però ben presto una viva diffidenza da parte dell’imperatrice Maria Teresa, che, nelle discussioni delle vertenze sorte di volta in volta tra l’Impero e la Santa Sede, cercò spesso di scavalcarlo servendosi del Migazzi, uditore di rota della nazione tedesca dal 1746, poi cardinale (1761); in questo incontrandosi anche con l’antipatia che lo stesso Benedetto XIV nutriva nei confronti dell’Albani. Così avvenne, per esempio, nel 1747‑48 in occasione delle discussioni sull’arcivescovato di Magonza e sul sequestro delle prebende che spettavano al cardinale Valenti in Lombardia, nonché, qualche anno dopo, in occasione della vertenza sorta in merito al patriarcato di Aquileia, e che portò nel 1751 alla sua soppressione.
Negli anni attorno al 1750‑52 l’A. si adoperò per secondare la richiesta di Carlo Emanuele III che la nunziatura di Torino venisse considerata di prima classe e quindi avente diritto al cardinalato. Al conclave del 1775, per quanto Giuseppe II avesse affidato al cardinale Migazzi, e non a lui, il «secretum», l’A. si impegnò attivamente nel tentativo, che ebbe buon esito, di rendere accetta la candidatura Braschi alla corte di Vienna.
L’A. conservò sempre nella sua attività diplomatica come tra i partiti di curia una notevole libertà di movimento: ambizioso e senza scrupoli, persegui per lo più una politica personale, non di rado ispirata da preoccupazioni economiche. Non nascose tuttavia le sue simpatie per i gesuiti: si oppose, anzi, alla bolla di soppressione della Compagnia e i suoi rapporti con Clemente XIV furono in genere piuttosto tesi.
Fu anche protettore dei chierici minori riformati, dei maroniti del Libano e dei premonstratensi, prefetto delle acque e, dal 1761, cardinale bibliotecario. Essendo decano dei cardinali diaconi, a lui spettò di incoronare Clemente XIII, Clemente XIV e Pio VI.
La fama dell’A. rimase però più legata alla sua attività di mecenate e di collezionista che non a quella politica e diplomatica. Amante delle arti e buon intenditore di esse, non senza un secentesco interesse erudito, ancora giovanissimo prese l’iniziativa per la fondazione di un’accademia antiquaria, affidandone la direzione a Francesco Bianchini, di cui era stato discepolo. Nello stesso tempo animava vaste campagne di scavi e una raccolta di statue antiche, assai spesso senza eccessivi scrupoli sul modo di procurarsele. Ma nel 1728 dovette venderne trenta, tra le più pregevoli della sua collezione, al re di Polonia, suscitando a Roma preoccupazione e rammarico per la grave perdita di opere d’arte subita dalla città. L’episodio fece sì che una sua seconda collezione, di busti romani, venisse acquistata nel 1734 da Clemente XII, che ne fece dono al neo‑istituito Museo Capitolino. L’A. formò ancora una terza collezione, di bronzi provenienti in gran parte da Tivoli: quest’ultima, saccheggiata dai Francesi durante la Repubblica romana, passò poi in parte a Luigi di Baviera, e in parte ai Torlonia, che ne acquistarono anche la villa. La villa dell’A. fuori porta Salaria, costruita da Carlo Marchionni, affrescata da Raffaello Mengs (il quale vi dipinse tra l’altro il Parnaso), fu appunto la sua opera più impegnativa (gli costò 400.000 scudi). Inaugurata nel 1763, essa venne concepita come un museo vivente: nelle sue sale, come nei vasti giardini che la circondavano, le antiche sculture erano disposte nella maniera più adatta a farne risaltare la bellezza. Testimonianza dell’interesse erudito dell’A. per l’antiquaria sono pure le sue collezioni epigrafiche e numismatiche, delle quali ci sono rimaste numerose descrizioni a stampa. Tra gli studenti e gli artisti che l’A. protesse merita un cenno particolare il Winckelmann, che, raccomandato dal noto antiquario e collezionista Filippo di Stosch, amico di vecchia data degli Albani, fu ospite del cardinale negli ultimi dieci anni della sua vita e che, grazie alla sua protezione, poté portare a compimento l’edizione dei Monumenti antichi inediti (Roma 1767). L’A. fu anche arcade col nome di «Chrisalgus Acidanteus». Morì a Roma l’ 11 dic. 1779 e il suo corpo venne sepolto a San Sebastiano fuori le mura.
G. SOFRI
Cenni particolari meritano infine, per il loro significato nel quadro dell’attività politica e degli interessi artistico‑antiquari dell’A., i rapporti che egli durante quasi tutta la sua vita mantenne con l’Inghilterra.
Sebbene membro della famiglia di papa Clemente XI, che aveva accolto a Roma il Pretendente Giacomo Stuart, l’A., dapprima segretamente, poi apertamente, si unì al partito contrario. Nel 1715 era venuto in rapporto a Roma con l’antiquario Filippo di Stosch, che ritornò nel 1722 come agente segreto del governo inglese per riferire sulle attività del pretendente e dei suoi fautori. Lo Stosch, nei suoi dispacci in Inghilterra, scritti sotto il nome di John Walton, attribuisce qualche sua informazione all’A., che ‑ egli diceva ‑ gli permetteva di menzionarlo come autore. Dopo che lo Stosch fu costretto, per un attentato, ad abbandonare Roma nel 1731, riferì che l’A., con grande rischio, gli inviava informazioni in cifra. V’è motivo di credere che dopo la partenza dello Stosch l’A. abbia avuto rapporti segreti con l’Inghilterra e altresì che abbia passato, come protettore della Sardegna, al d’Ormea, che era particolarmente filobritannico, talune informazioni sugli Stuart.
Quando l’A. divenne protettore dell’Austria, ebbe motivo ufficiale di trasmettere qualche informazione all’Inghilterra, sebbene appaia essere andato molto oltre quello che era richiesto dal suo impegno ufficiale. Durante la guerra di successione austriaca, in cui l’Inghilterra fu alleata dell’Austria, l’A. ebbe ad occuparsi specialmente della flotta inglese, che appoggiava le truppe austriache in Italia; e nel 1744 iniziò una corrispondenza con Horace Mann, ministro inglese a Firenze, che continuò ininterrottamente fino al 1772, riguardante molte questioni private e pubbliche. Nella sua qualità di rappresentante di una potenza alleata dell’Inghilterra, l’A. poté anche favorire quei viaggiatori inglesi che non avevano legami con gli Stuart e pertanto mancavano in Roma di amici influenti. Il governo inglese apprezzò i suoi servigi, e per compiacerlo usò i propri buoni uffici con l’imperatore per promuovere un matrimonio tra il nipote dell’A., Orazio Francesco, principe di Soriano, e la seconda principessa di Massa, che si pensava, erroneamente come poi apparve, dovesse succedere nel ducato. Durante la guerra l’A. non solo diede al Mann informazioni sugli Stuart, ma permise che la corrispondenza delle spie del Mann a Roma passasse attraverso le proprie mani. Nel 1766 rese un buon servizio al governo inglese comunicando al papa il punto di vista del Mann sulla morte del vecchio pretendente. Si dovette largamente alla sua influenza se il papa rifiutò d’accordare al giovane pretendente i contrassegni della regalità goduti da suo padre: da qui un notevole miglioramento delle relazioni tra Gran Bretagna e S. Sede. Pare che per tutto il periodo in cui fu rappresentante austriaco e che durò sino alla sua morte, l’A. abbia curato gli interessi inglesi a Roma, mancando un rappresentante accreditato inglese nello Stato della Chiesa. Egli ricevette e ospitò i duchi di York (1764), Gloucester (1772 e 1776) e Cumberland (1774). Molti altri importanti viaggiatori inglesi visitarono la sua famosa villa.
In parte, ma non esclusivamente, attraverso le presentazioni di Horace Mann, l’A. contribuì grandemente alla formazione delle collezioni inglesi di antichità romane, e protesse artisti inglesi a Roma. Tra coloro che gli furono raccomandati dal Mann si ricordano Richard Wilson, Joseph Wilton, William Chambers, Thomas Jenkins (che divenne un famoso intenditore di antichità), Robert Adam, Robert Strange, e James Barry. Nel 1749 aiutò M. Brettingham ad acquistare statue per il conte di Leicester; nel 1750 ne trovò alcune per Bubb Dodington; dal 1753 al 1755 sovraintese ai lavori di P. Costanzi, P. Batoni, A. R. Mengs e A. Masucci, che copiavano pitture per il duca di Northumberland. Nel 1761 l’A. divenne membro onorario della Società degli antiquari di Londra. Nel 1762, attraverso l’agenzia di James Adam, vendette a Giorgio III le collezioni di disegni di Cassiano dal Pozzo e Carlo Maratta che aveva acquistato da suo zio Clemente XI.
L. LEWIS
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