Scipione Cobelluzzi (1618-1626)

 

Tratto dal Dizionario Biografico degli Italiani, 26, pp. 433-435 edito dall’Istituto della Enciclopedia Italiana.

Nacque a Viterbo con ogni probabilità nel 1564. Suo padre, che divenne conservatore della città nello stesso giorno in cui nasceva il C. (così il Gallucci, che però non ne ha tramandato il nome), esercitava il mestiere di farmacista. Studiò a Roma nel collegio Nardini della Compagnia di Gesù, mentre ebbe in seguito come maestro privato di greco il giovane N. Alemanni.

Laureatosi in utroque iure, divenne uditore di A. Gloriero, prefetto dell’Annona, e poi del card. G. Berneri. Secondo N. Spano (L’Università di Roma, Roma 1935, pp. 333, 335) il C., che recitò un’orazione nel giorno delle Ceneri di un anno imprecisato alla presenza di Clemente VIII, prima della fine del XVI secolo, avrebbe anche insegnato diritto all’università. Aveva abbracciato la carriera ecclesiastica ed era già segretario domestico di Paolo V, quando, alla morte di M. Vestri, segretario dei Brevi, nel 1611, per interessamento del card. Berneri e del card. Odoardo Farnese, fu nominato dal papa abbreviatore di Curia. Il 7 marzo 1615 Paolo V gli conferiva l’ufficio di custode dell’Archivio di Castel Sant’Angelo, che continuava a conservare le più gelose testimonianze relative alla storia e ai diritti dello Stato ecclesiastico anche dopo la costituzione, avvenuta pochi anni prima, dell’Archivio Vaticano. La fiducia e la stima per il C. del papa, che nel documento di nomina ad archivista lo definisce, oltre che «Apostolice Sedis notarius», «secretarius domesticus et familiaris», anche «continuo commensalis noster», crebbero costantemente, cosicché il 19 sett. 1616 egli fu nominato cardinale.

Il 17 ottobre gli fu assegnato il titolo di S. Susanna. Per la sua elezione i conservatori del Comune di Viterbo ringraziarono ufficialmente ii pontefice, stabilendo di conferire al C., che, divenuto protettore della città, ne accettò soltanto la metà, un donativo di 6.ooo scudi. Eletto cardinale, il C. non lasciò la segreteria dei Brevi, mantenendo la carica fino ai 1623.

Anche se ci fu chi sostenne che la fama del porporato come letterato era usurpata e anche se in effetti non si ha notizia di sue opere stampate o manoscritte, egli doveva essere considerato, oltre che un protettore di letterati, un uomo di cultura, se il 17 febbr. 1618 Paolo V lo nominava cardinale bibliotecario. Del resto nel motu proprio di nomina si accenna molto brevemente e succintamente alla sua dottrina e prudenza.

Alla morte di Paolo V (28 genn. 1621) il C. partecipò al conclave che portò all’elezione di Gregorio XV e si schierò, forse per gratitudine verso il papa defunto che lo aveva innalzato alla porpora, con il partito capeggiato dal card. Scipione Borghese, con il quale in seguito non fu in buoni rapporti; tuttavia lo si considerava anche come facente parte del gruppo degli «spirituali».

Anche il nuovo papa pare tenesse in buona considerazione il C., che d’altra parte, essendo cardinale e svolgendo a Roma e in Curia le sue attività, era logico avesse incarichi nel governo della Chiesa. Fece parte dell’Inquisizione e della Congregazione de Propaganda Fide, creata il 6 genn. 1622, a cui donò una rendita di 100 scudi annui destinata ad affrancare prigionieri dei Turchi. Fu anche uno dei sei cardinali che componevano la commissione creata per esprimere un parere sulla richiesta di dispensa per il matrimonio fra il principe di Galles, il futuro re Carlo I d’Inghilterra, e l’infanta Maria di Spagna; la commissione esortò il papa, nell’aprile del 1623, a permettere le nozze.

Come cardinale bibliotecario il C. si trovò, non per sua iniziativa, ma per la posizione che occupava, coinvolto nell’acquisizione della Biblioteca Palatina. Quando Leone Allacci il 28 ott. 1622 partì per ricevere a nome del papa il magnifico dono da parte di Massimiliano I duca di Baviera, egli portò con sé fra i vari documenti un’istruzione del C., stesa da N. Alemanni, scrittore della Biblioteca Vaticana. Con essa si suggeriva all’Allacci di usare la massima diligenza per venire in possesso dei libri e dei codici nella loro totalità, per trasportarli con le opportune precauzioni e per acquisire ogni testimonianza esistente sulla biblioteca stessa. L’Allacci, in corrispondenza soprattutto con il cardinal nepote, Ludovico Ludovisi, non mancò di mettere al corrente il C. dei particolari del suo viaggio. Arrivato nel Palatinato, nel gennaio del 1623, egli gli scriveva come ‑ e non c’è da meravigliarsene ‑ i cittadini di Heidelberg mostrassero di non poter sopportare il trasferimento della loro libreria. Pochi giorni dopo l’Allacci comunicava al C. l’importante notizia di poter ulteriormente impinguare il dono del duca con altri manoscritti, documenti e quadri già appartenuti all’elettore e al Collegio della Sapienza. Il C. ebbe modo quindi di seguire tutte le vicissitudini e di conoscere tutte le difficoltà che l’Allacci incontrò e superò nel viaggio di ritorno, iniziato il 14 febbr. 1623.

Morto Gregorio XV (8 luglio 1623), il C. entrò in conclave e, strano a dirsi perché in fondo non aveva fatto alcunché di notevole, non deteneva alcun potere politico e non aveva fama se non di virtù generiche, nella ridda di candidature che caratterizzò quel conclave fu fatto anche il suo nome.

Il C. comunque, considerato aderente del partito francese, non solo riteneva la cosa possibile ed auspicabile, ma addirittura «nutriva grandi speranze di diventar papa». Dopo dieci giorni, il 29 luglio, ottenne undici voti, che divennero ventiquattro il 1° agosto e venticinque il giorno seguente. Fu questo però il massimo dei suffragi a cui pervenne, perché gli oppositori, che lo ritenevano capace di introdurre ardite riforme e che sostenevano che avrebbe governato con «verga ferrea», si coalizzarono contro la sua candidatura, che dovette essere abbandonata.

Sotto il pontificato di Urbano VIII il C. fu nell’aprile del 1624 uno dei cardinali che accolsero Galileo Galilei al suo arrivo a Roma e fu anche consultato mentre si stavano esaminando le clausole del contratto matrimoniale di Carlo principe di Galles, ma nel complesso, cessato anche dall’ufficio di segretario dei Brevi, fu poco utilizzato. Forse per questo decise di intraprendere un pio pellegrinaggio, recandosi a visitare il monastero di Montecassino e il santuario di Loreto. Era in viaggio quando gli si manifestò un’affezione cancerosa a un braccio, per cui tornò a Roma, dove i medici gli consigliarono l’amputazione. Avendo rifiutato di farsi operare secondo alcuni, o sostenendo eroicamente l’operazione secondo altri, morì a Roma il 29 giugno 1626.

Fu seppellito nella chiesa del suo titolo, S. Susanna, dove non ebbe un monumento funebre, ma una semplicissima lapide che ricordava il suo nome sul pavimento. Un’altra meno laconica ne fecero apporre i gesuiti del collegio di Viterbo, che egli aveva lasciato suoi eredi. Il gesuita A. Gallucci scrisse per lui un’orazione funebre che fu stampata a Roma nel medesimo anno, recitata durante i funerali, che, oltre a quelli a S. Susanna e a Viterbo, gli si tributarono al Gesù.

Dotato di un’erudizione e di una cultura di cui dubitarono posteri e contemporanei, il C. concesse tuttavia la sua protezione a letterati, eruditi e artisti. V. Mariner, che trascrisse un Eusebio greco dell’Escorial e lo tradusse in latino (Bibl. Apost. Vat., Vat. gr. 1576), glielo dedicò premettendovi due epigrammi in suo onore. Parimenti a lui dedicati sono l’edizione di Gand del 1617 del De Capitolio Romano commentarius di J. de Rycke, De servis et eorum apud veteres ministeriis (Augustae Vindelicorum 1613) di L. Pignoria, Anastasii Bibliotecarii Sedis Apostolicae collectanea, Parisiis 1620, di J. Sirmond. Aveva avuto sotto la sua protezione il pittore viterbese B. Cavarozzi. Si era reso benemerito della città di Viterbo anche facendo rinnovare la facciata della chiesa di S. Pietro del Castagno.

Aveva fatto testamento il 20 giugno, pochi giorni prima di morire (copia in Bibl. comun. degli Ardenti di Viterbo, sala II, C I 12) e, disponendo di essere seppellito nella chiesa del suo titolo con la pompa strettamente necessaria, aveva lasciato suoi eredi universali i gesuiti di Viterbo, il cui collegio era stato fondato nel marzo del 1622, poco prima della canonizzazione di s. Ignazio, della cui bolla il C. fu uno dei sottoscrittori. Salvo alcuni legati minori e il lascito dei suoi codici e delle sue carte alla Biblioteca Vaticana, l’eredità che passò ai gesuiti consisteva, oltre che in argenteria, biancheria, mobili, abiti e altri oggetti di uso corrente, in varie decine di quadri, la maggior parte dei quali di soggetto sacro, e in un migliaio circa di libri a stampa. Questi ultimi, insieme a tutti gli altri che costituivano la biblioteca del collegio dei gesuiti di Viterbo passarono, alla soppressione del collegio, nel 1868, al seminario vescovile di Viterbo, che negli anni 6o di questo secolo li depositò nella Biblioteca comunale, dove comunque essi sono inventariati insieme agli altri della ex biblioteca dei gesuiti e per ora non distinguibili come fondo separato. Dei codici provenienti dall’eredità del C., che F. Blume (Iter Italicum, II, p. 248) sostiene di aver veduto nella biblioteca dei gesuiti di Viterbo, non si ha notizia.

Dei manoscritti che dovrebbero essere pervenuti alla Bibl. Ap. Vaticana si hanno due testimonianze: una di F. Contelori (cfr. Bignami Odier), che vi vide una cassa di libri appartenuti al C. e una lista dei suoi manoscritti nelle cc. I‑5 del Barb. lat. 6538. La maggior parte di essi è costituita da formulari e repertori giuridici, testi di diritto canonico e amministrativo; in miner misura sono presenti opere storiche, talune di carattere locale, lettere, bolle e relazioni. Di essi, nella Bibl. Apost. Vat., nel cui museo è conservato un busto del C. in bronzo, opera del Valadier della fine del XVIII secolo, non è stata, identificata la collocazione.

FONTI E BIBL.: Bibl. Ap. Vaticana, Ferr. 374: T. Ameyden, Elogia summorum Pontificum et S. R. E. cardinalium, cc. 232r‑236r; Ibid., Vat. lat. 10445, CC. 115v‑116r; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese… di Roma, IX, Roma 1877, p. 536; G. Palazzi, Fasti cardinalium…, IV, Venetiis 1703, coll. 79 s.; L. Cardella, Mem. stor. de’ cardinali, VI, Roma 1793, pp. 193 ss.; G. Dell’Aquila Visconti, Del prelato abbreviatore di Curia, Roma 1870, pp. 48 s.; C. Mazzi, Leone Allacci e la Palatina di Heidelberg, Bologna 1893, passim; R. Quazza, L’elez. di Urbano VIII, in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, XLVI (1922), pp. 6, 10 s., 18, 21 55., 28, 33, 37; G. Gabrieli, Il conclave di Gregorio XV, ibid., L (1927), pp. 13, 20; L. von Pastor, Storia dei papi, XII‑XIII, Roma 1943, ad Indices; A. Serafini, Le origini della pont. Segreteria di Stato…, in Romana Curia a b. Pio X sapienti consilio reformata, Romae 1951, p. 216; G. Signorelli, Viterbo nella storia della Chiesa, III, I, Viterbo 1969, pp. 17‑23, 29 ss.; J. Bignami Odier, La Bibliothèque Vaticane…, Città del Vaticano 1973, ad Indicem; G. Moroni, Diz. di erudiz. stor.‑eccles., XIII, p. 116; P. Gauchat, Hierarchia catholica, IV, Monasterii 1935, p. 13.

F. PETRUCCI


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