Scipione Borghese Caffarelli (1609-1618)

Tratto dal Dizionario Biografico degli Italiani, 12, pp. 620-624 edito dall’Istituto della Enciclopedia Italiana.

Nato a Roma nel 1576 da Francesco Caffarelli e da Ortensia Borghese, sorella di Paolo V, assunse il cognome materno dopo l’assunzione dello zio al pontificato. Studiò filosofia nel Collegio Romano fondato dai gesuiti, quindi diritto all’università di Perugia, grazie ai sussidi dello zio (il padre, che risiedeva a Nepi, versava in condizioni finanziarie assai precarie e solo dopo il 1607 poté rientrare a Roma). Due mesi dopo la sua elezione, il 18 luglio 1605, Paolo V ammetteva il nipote, con il nome e l’arma dei Borghese, nel Sacro Collegio. Destinato a ricoprire le funzioni, ormai tradizionali da Sisto V in poi, di cardinal nepote, il B. fu proposto nell’agosto seguente alla Consulta, incaricata del governo dello Stato della Chiesa, e succedeva quindi nel settembre dello stesso anno al cardinale Erminio Valenti, vecchio uomo di fiducia di Pietro Aldobrandini durante i tredici anni del pontificato di Clemente VIII, nell’ufficio di segretario ai Brevi, giungendo così in pochi mesi anche al controllo della Segreteria di stato.

Con il congedo del Valenti e il successivo, forzato ritiro nel maggio 1606 da Roma a Ravenna dell’Aldobrandini, che per qualche tempo ancora aveva mantenuto con il possesso della legazione di Ferrara e del camerlengato una posizione di primo piano nell’ambiente di Curia, il B. ebbe via libera nell’opera di rimaneggiamento dei quadri interni e nell’allineamento della direzione politica della Chiesa alle istruzioni del nuovo pontefice.

Nei confronti di Paolo V il B. ‑ secondo il Pastor, che in questo senso attinge largamente a fonti veneziane e gonzaghesche ‑ «si diportò fin dal principio con la più grande discrezione e riservatezza». Diametralmente opposto è il giudizio del Ranke, che attribuisce al B. «tanta autorità su Paolo V quanta ne aveva posseduta Pietro Aldobrandini su Clemente VIII». Di fatto ‑ a prescindere dal temperamento personale, di grande risolutezza, di papa Borghese ‑ assai ristretto, o comunque di scarsa rilevanza, appare, a differenza del periodo precedente, il margine di manovra per iniziative autonome concesso dalla stessa politica di centralizzazione amministrativa e di riforma delle strutture interne promossa, e perseguita sempre con ferma coerenza ed energia, dal nuovo pontefice nella riorganizzazione dei suoi Stati. Né il B., pur dotato di spirito vivace e di una certa intraprendenza personale, era uomo di notevole senso politico, o almeno tale da coltivare disegni originali nella condotta degli affari pubblici. Anche nelle negoziazioni internazionali egli fu piuttosto interprete intelligente, con la necessaria accortezza e duttilità richieste dalle circostanze, delle direttive dello zio, che assertore di una propria, precisa linea politica. Pure sul piano tattico il B. tenne a non sbilanciarsi, conformemente alla politica di vigilante neutralità tra Francia e Spagna mantenuta sostanzialmente da Paolo V. Dalla sua assunzione alla porpora, il cardinal nepote riceveva uno stipendio annuo dalla Francia e nel febbraio 1610 fu anche interessato, nella ventilata prospettiva di un’acquisizione del Regno di Napoli per casa Borghese, agli intrighi antispagnoli in Italia dell’ambasciatore francese De Breves. Ma donativi e pensioni egli accettava egualmente da Filippo III e dai ministri spagnoli, né in ultima analisi era poi uomo ‑ come osserva giustamente il Pastor ‑ da «possedere sul piano pratico influenza sufficiente per effettuare qualcosa di decisivo».

A maggior ragione non gli fu dato emergere in un campo come quello dottrinale e dogmatico in cui Paolo V tenne sempre a riaffermare gelosamente, e di prima persona, le prerogative dell’autorità papale. Compito del B. fu piuttosto quello ‑ come nella questione della grazia fra domenicani e gesuiti, nelle controversie del 1607‑1609 sull’opera di Giacomo I, Triplici nodo, triplex cuneus, o del Cremonini o ancora nella «crisi dell’interdetto» e nella contesa con il Sarpi ‑ di recuperare e di riassorbire (attraverso vari canali, anche personali ed eterodossi, ma pur sempre entro il rigoroso disegno pontificio) le polemiche più acute o i motivi più pericolosi di dissenso.

In effetti, il B. badò in modo eminente, durante il lungo pontificato dello zio, a rafforzare la posizione della sua famiglia nell’ambito dell’alta aristocrazia romana, cercando di scalzare dall’interno la vecchia egemonia dei Colonna e degli Orsini. Se egli non ebbe a godere come per l’innanzi, conformemente del resto alla nuova pratica nepotistica impostasi nel primo Seicento, dell’assegnazione di un feudo ritagliato dagli Stati della Chiesa, fu comunque ammesso assai presto ai benefici e alle rendite di cospicui e ben remunerati Uffici amministrativi. Di fatto, dopo aver ottenuto nel 1607 (al posto di Cinzio Aldobrandini) la legazione di Avignone, il B. veniva nominato nel 1607 arciprete del Laterano, prefetto della Congregazione del concilio e abate di S. Gregorio al Monte Celio. Tra il 1609 e il 1612 egli cumulava ancora gli uffici di bibliotecario di Santa Romana Chiesa e di gran penitenziere, il camerlengato e la prefettura dei Brevi apostolici, oltre agli incarichi di prefetto della Segnatura di grazia, di protettore della Germania, delle Fiandre e di parecchi ordini (tra cui quelli dei domenicani e dei camaldolesi), e di titolare (dall’ottobre 1610 all’aprile 1612) dell’arcivescovato di Bologna (nell’ultimo anno di pontificato dello zio si sarebbe aggiunta ancora la nomina a protettore della Casa di Loreto e ad arciprete di S . Pietro). Le sue entrate annuali, che nel 1609 ammontavano già a 80.000‑90.000 scudi, salivano nel 1612 a 140.000‑150.000 scudi. Con gli assegni di tali cariche e altri grossi donativi del pontefice e di ministri francesi e spagnoli, il B. era in grado non solo di accrescere considerevolmente il patrimonio della sua famiglia, ma anche di iniziare dal 1614 la scalata alle posizioni egemoniche sino allora detenute dai Colonna e dagli Orsini, annettendosi per 280.000 scudi i possessi di Montefortino e Olevano e procedendo quindi all’acquisto di beni immobili e di vaste proprietà fondiarie nell’Agro romano e in altre contrade dello Stato. Secondo una relazione del 1672, il cardinal nepote riuscì anzi a concentrare nelle sue mani durante il pontificato di Paolo V, oltre a palazzi e ville fastose nei dintorni della capitale, una ottantina di casali nella campagna romana, pagandoli talora più di quanto essi in effetti valessero, ma riuscendo a concretare infine, anche per questa via, il disegno di supremazia sugli altri nuclei aristocratici, già acquisita per altra parte sul piano politico e amministrativo. Ché, unitamente al B., anche l’altro nipote di Paolo V, Marcantonio Borghese, ebbe a cumulare nello stesso periodo numerose prebende e cariche civili, con l’acquisizione nel 1610 del principato di Sulmona nel Regno di Napoli e tre anni dopo col possesso di Morlupo presso Nepi e l’assegnazione nel 1620 del generalato della Chiesa. Di fatto, mentre il debito delle finanze pubbliche saliva da 12 a 18 milioni, i nipoti di Paolo V ricevettero, durante il quindicennio di pontificato dello zio, più di 689.000 scudi di danaro, 24.600 scudi in luoghi di monte, al valore nominale, 286.000 scudi in uffici, cioè una somma complessiva pari a circa un milione di scudi, senza contare i privilegi e le esenzioni particolari concessi loro dal papa ed estesi spesso anche ai dipendenti diretti.

La fisionomia economica e sociale, la pratica di vita e il costume del B. ebbero così ad avvicinarsi, secondo le testimonianze pressoché unanimi dei cronisti del tempo, a quelle di un vero e proprio principe secolare. Né d’altra parte la vicenda del B. rappresentò un’eccezione: «quello che possiede ‑ scriveva nel 1627 Pietro Contarini in una sua relazione da Roma ‑ la casa Peretta, Aldobrandina, Borghese e Ludovisia, li loro principati, le grossissime rendite, tante eminentissime fabbriche, superbissime supellettili con estraordiiari ornamenti e delizie, non solo superano le condizioni di signori e principi privati, ma s’uguagliano e s’avanzano a quelle dei medesimi re».

Più durevole, almeno rispetto alla fortuna dei Peretti e degli Aldobrandini, fu invece l’influenza e l’autorevolezza, nella cosa pubblica e negli affari interni della Chiesa, che la famiglia, attraverso il B., ebbe a esercitare anche dopo la scomparsa di Paolo V, sopravvivendo al rimpasto avvenuto ai vertici dell’alta aristocrazia dello Stato con l’ascesa al pontificato nel 1621 di Gregorio XV e della nuova potente famiglia dei Ludovisi e mantenendo ancora, pressoché intatta, la sua forza nel corso della contrastata elezione nel 1623 di Urbano VIII Barberini. Di fatto alla morte di Paolo V, il casato dei Borghese era assurto da tempo al rango di dinastia familiare più ricca e più potente che mai ci fosse stata in Roma. E cura principale del B., titolare ed erede di un patrimonio solidissimo, era stata di assicurarsi e di conservare al suo servizio un partito compatto e devoto di seguaci sia nell’alta burocrazia curiale sia nell’ambito del Sacro Collegio.

All’apertura del conclave dell’8 febbr. 1621, otto erano i cardinali paolini contro i tredici porporati del periodo clementino. Ma intorno al B. si erano raccolti nel frattempo altri ventuno cardinali, così che lo schieramento borghesiano rappresentava il gruppo più forte, interlocutore d’obbligo dei ministri di Spagna, Francia e Impero nelle trattative preliminari sulla scelta dei candidati alla tiara. L’amico intimo del B., cardinale Pietro Campori, gradito sia a Madrid sia a Vienna, era il candidato proposto ufficialmente dal cardinal nepote. Ma anche il cardinal Aquino, appoggiato in principio dall’ambasciatore francese d’Estrées, apparteneva alla fazione del Borghese. Se poi in pratica, per la riluttanza di alcuni dei suoi, il B. non riuscirà a bloccare sul nome del Campori tutti i trentatré voti di cui ebbe a disporre nelle successive fasi del conclave, è vero d’altra parte che mantenne pur sempre un ruolo di primo piano, e comunque decisivo, nella dislocazione dei vari schieramenti e nell’esito dell’elezione di Gregorio XV. Sua fu l’iniziativa dell’8 febbraio di risolvere infine la situazione di impasse, venutasi a determinare con la contrapposizione frontale del suo e del gruppo Aldobrandini, appoggiati rispettivamente da Spagna e Francia, convenendo sul nome del Ludovisi. «Il Borghese, è vero ‑ scrive il Pastor ‑ non aveva spuntata la candidatura del suo beniamino Campori, ma poteva almeno esser lieto che l’elezione fosse caduta su uno dei cardinali del papa defunto, sul quale, benché al terzo posto (dopo il Campori e l’Aquino), aveva posto gli occhi fin dapprincipio».

Ancor più laboriosa sarà, come è noto, la vicenda del conclave del luglio‑agosto 1623, nonostante che Gregorio XV si fosse preoccupato di riformare in qualche modo la procedura dell’elezione papale tentando di ridurre al minimo le lotte e le manovre di fazione. Pure in questo secondo conclave una parte decisiva ebbe comunque a svolgere il partito del B., forte all’inizio di ventidue-venticinque aderenti e della confluenza sulle sue posizioni di alcuni cardinali‑principi, da Maurizio di Savoia all’Este, e al centro come in passato dell’attenzione e delle affannose manovre così dei ministri spagnoli e della corte imperiale come dei rappresentanti francesi a Roma. Se infatti lo schieramento borghesiano si era presentato, a differenza che nel precedente conclave, senza designare apertamente un proprio candidato, la sua forza rimaneva pur sempre cospicua e la sua capacità di manovra sufficiente comunque a bloccare o ad escludere le preferenze espresse di volta in volta dagli altri gruppi, dei «vecchi cardinali», anteriori a Paolo V, dei ludovisiani, come dei cardinali‑principi: Galamina, Cobelluzio, Carafa, Caetani, Borromeo. Così che, dopo la verifica dei rispettivi rapporti di forza al terzo scrutinio del 29 luglio fra il Ludovisi e il B. (il primo fautore della candidatura del Bandini, il secondo sostenitore del Millini) e altre successive, concitate trattative e votazioni senza esito, sarà ancora una volta un accordo di compromesso, cercato con molta fatica dal nipote di Gregorio XV e sottoscritto anche dal B., a varare infine, la mattina del 7 agosto, l’elezione al pontificato del Barberini.

Tuttavia ‑ a differenza del precedente conclave ‑ il B. usciva duramente provato dalla competizione con il Ludovisi e l’Aldobrandini, mentre le stesse defezioni all’ultima ora di non pochi porporati del suo gruppo, insofferenti ormai del lungo predominio del B., avevano chiaramente rivelato le condizioni di progressivo logoramento del partito borghesiano. Né a ricomporre le lacerazioni interne e a rinserrare le fila, basterà il favore di cui il B. ebbe pur a godere, almeno all’inizio, presso il nuovo pontefice Urbano VIII. Di fatto, con l’ascesa sempre più sicura del nuovo gruppo di potere raccoltosi intorno al Barberini e con l’indirizzo sempre più assolutistico assunto da papa Urbano VIII, la stessa posizione del vecchio cardinal nepote, come del resto quella dell’altro protagonista della vita politica romana degli anni venti, il Ludovisi, era destinata a divenire sempre più precaria. Nell’agosto 1629 egli optava infine per il vescovato suburbicario di Sabina (dove a proprie spese istituirà il suffraganeato) conservando in commenda il titolo presbiteriale di S . Crisogono, ma ritraendosi dalla vita pubblica attiva. Anche la sua autorità sul generale dei domenicani Ridolfi, quale titolare dal 1606 dell’incarico di protettore dell’Ordine, andò declinando sensibilmente dopo il 1629.

Gli ultimi anni videro il B. proseguire piuttosto, con rinnovata passione, l’opera di mecenate sensibile e generoso (tra i suoi protetti fu anche il Boccalini, che gli dedicò nel 1612 la prima centuria dei Ragguagli di Parnaso) con cui si era imposto, guadagnandosi grandi simpatie, nella vita civile e culturale romana all’inizio del pontificato di Paolo V. «Da lungo tempo ‑ scrive il Pastor ‑ Roma non aveva visto un mecenate di così fine intelligenza e di tanta liberalità come questo Nepote. Appassionato in egual misura della musica e delle arti del disegno, egli ‑ alla pari del papa, che nel 1609 comperò la famosa collezione di statue dello scultore Tommaso Della Porta ‑ fece raccolta con gusto finissimo e instancabilmente in tutta Italia di opere di arte che gli affluivano da tutte le parti, sia come doni, sia come acquisti. Egli fece intraprendere scavi nella città e nei suoi dintorni. Da Parigi e da Bruxelles fece venire, coll’aiuto dei nunzi locali, parecchi arazzi preziosi, che erano considerati come elementi fondamentali di una decorazione principesca, sfarzosa. Marcello Provenzale gli fornì mosaici fra cui il ritratto dello zio. Oltre ad antichità cristiane e classiche, il cardinale si procurò soprattutto quadri di valore, dimodoché la sua galleria poteva gareggiare con quella dell’imperatore Rodolfo II». Nella sua ricca collezione d’antichità e d’arte (ripartita fra i palazzi romani e di Frascati, di proprietà della famiglia, ma raccolta poi in gran parte, dal 1610, nella villa fuori di porta Pinciana, oggi Galleria Borghese) il B. riuscì in effetti ad aggregare lavori di maestri di prim’ordine: dalla Deposizione dipinta da Raffaello per Atlanta Baglioni in S. Francesco di Perugia alla Sibillacumana e alla Caccia di Diana del Domenichino, all’Incendio di Roma del Barocci; dal David colla testa di Golia del Caravaggio alla Venere giacente del Tiziano, ad altre opere di Paolo Veronese, di Savino Fontana, del Pordenone, del Baglione, a non contare le sculture moderne del Cordier, del Berthelot, di Prospero Bresciano, del Guidotti e del Bernini. Nei confronti di quest’ultimo, in particolare, il B. ebbe il merito di averne compreso fin dall’inizio, oltre alla forte personalità, l’autentica vocazione artistica e favorito poi l’ascesa negli ambienti culturali della capitale. Se nelle più importanti opere di abbellimento e di magnificenza dei primi due decenni del Seicento ‑ la cappella dell’Annunziata, eretta nel 1610 e affrescata dal Reni, il giardino del Quirinale, la cappella Paolina, l’acquedotto dell’Acqua Paola, l’interno e la facciata di palazzo Borghese, o ancora le famose fontane del Maderno a piazza S. Pietro e in altre piazze romane ‑ il B. ebbe in prevalenza a coadiuvare o a integrare le scelte e l’opera dello zio, egli rivelò nondimeno, anche in questo campo, quando assunse personalmente l’iniziativa di alcuni lavori di decorazione o di rifacimento, notevoli capacità organizzative, gusto e stile sicuro e sensibile. A lui si deve, in particolare, l’erezione del terzo palazzo Borghese, sul Quirinale (il secondo, in Borgo, costruito dal Bramante, egli l’aveva acquistato dai Campeggi all’inizio del pontificato dello zio) in faccia alla residenza papale, costruito da Flaminio Ponzio e ultimato, dopo la morte di costui, nel 1610 da Jan van Santen e dal Maderno. Nel grazioso casino del palazzo (acquistato nel 1611 dal cardinale Bentivoglio, passato poi in possesso del Mazzarino e quindi dei Rospigliosi) Guido Reni, che per il B. aveva già dipinto tre scene della vita di Sansone, realizzò il suo capolavoro, l’Aurora. All’interno del palazzo il Reni lavorò, per incarico del cardinal Scipione, pure ad una piccola loggia, ornata nel fregio e nelle lunette anche da pitture di Antonio Tempesta e di Paolo Bril. Questi e altri affreschi, eseguiti dal Cigoli nel secondo casino del palazzo, vennero poi corredati dal B. di quadri di maestri antichi e moderni, di statue di notevole pregio, di bronzi, arazzi, maioliche e altre opere di arti minori. Ma l’opera cui rimase legata durevolmente la fama del B. è costituita dalla celebre e grandiosa villa Borghese (con annesso il fabbricato del casino e il parco comprendente un perimetro di tre miglia) eretta in città, fra porta Flaminia e porta Pinciana, dal Ponzio a partire dal 1606 e integrata (per quanto riguarda il casino cui lavorò con maestria e ingegnosità l’olandese van Santen) fra il 1613 e il 1621. Nella cornice d’una costruzione barocca, tesa a congiungere in una splendida prospettiva arte e natura, il B. volle infatti inserire un ultimo gioiello, costituito dal casino: un fabbricato centrale a due piani (poi totalmente cambiato), fiancheggiato da due torri con una spaziosa piazza quadrangolare, incorniciata all’accesso da una splendida balaustrata in travertino e ai crocicchi da basamenti con statue antiche.

Ma di notevole interesse sono anche i rifacimenti di alcuni edifici religiosi romani curati con estrema liberalità dal B. a partire dal 1608: quello, in particolare, con affreschi del Domenichino e del Reni, alla facciata dell’oratorio di S. Andrea al Celio; ed altri all’oratorio di S. Silvia (con successivi lavori di abbellimento terminati nel 1633, nella facciata, nella scalinata e nell’atrio avanti la chiesa), alla chiesa di S. Maria della Vittoria (in ricordo del successo imperiale del 1621 alla Montagna Bianca), alla cappella dei Caffarelli in S. Maria sopra Minerva e ancora alle chiese di S. Crisogono e di S. Sebastiano fuori le Mura. Il B. contribuì pure alla fondazione nel 1628 del monastero delle clarisse a S. Clara in prossimità del Pantheon, nonché della chiesa parrocchiale di Montecompatri e del convento dei francescani riformati a Montefortino. Larghi mezzi e lasciti egli destinò alle opere di restauro della cappella Borghese a S. Maria Maggiore e alla basilica di S. Lorenzo in Lucina.

Il B. morì a Roma il 2 ott. 1633 e fu sepolto nella cappella Borghese in S. Maria Maggiore; ne ricordano le sembianze due busti scolpiti dal Bernini, conservati tuttora alla Galleria Borghese.

Venuta in declino, alla fine del sec. XIX, la posizione di casa Borghese nell’ambito dell’alta aristocrazia romana, le collezioni artistiche private della famiglia, tra cui molti ricordi di Paolo V e la biblioteca fondata dal pontefice e arricchita dal B., andarono disperse. I manoscritti, alcuni di notevole valore, e l’archivio della famiglia furono salvati per iniziativa di Leone XIII. Nel 1901 villa Borghese fu acquistata dallo Stato italiano e passata in proprietà, due anni dopo, al Comune di Roma come parco pubblico. L’anno prima lo Stato aveva acquistato anche la collezione di sculture del casino Borghese e la splendida galleria di pitture prima dislocata a palazzo Borghese.

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V. CASTRONOVO


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